Cenni Storici sul Convento di San Zaccaria
ILe
prime
notizie
certe
riguardanti
il
monastero
di
San
Zaccaria
le
abbiamo
dal
testamento
del
doge
Giustiniano
Partecipazio,
redatto
nell'anno
829,
nel
quale
ricorda
anche
l'erezione
del
monastero
di
Sant'Ilario.
Entrambi
i
monasteri sarebbero stati edificati nell'anno 827,
con
il
contributo
dello
stesso
doge.
Nel
testamento
egli
ricorda
anche
l'arrivo
a
Venezia,
nell'anno
828,
delle
reliquie
di
San
Marco,
e
le
disposizioni
per
la
costruzione
di
una
chiesa
per
poterle
custodire:
la
futura
basilica
di
San
Marco.
Un'altra
tradizione,
suffragata
da
un
documento
ritenuto
poi
dagli
storici
un
falso
(anche
se
molto
antico),
vorrebbe
che
all'erezione
della
chiesa
e
monastero
di
San
Zaccaria
vi
avesse
contribuito
anche
l'imperatore
d'oriente Leone V l'Armeno, che avrebbe inviato a Venezia alcune reliquie, tra le quali quelle del santo titolare.
La
dedicazione
a
San
Zaccaria
potrebbe
essere
dovuta
proprio
all'arrivo
a
Venezia
di
questa
importantissima
reliquia,
oppure
all'intenzione
politico-religiosa
di
Venezia
di
porsi
al
di
sopra
e
al
di
fuori
delle
controversie
dell'epoca,
riallacciandosi,
con
i
corpi
di
Marco
e
Zaccaria,
direttamente
al
primo
cristianesimo.
Potremmo
dire
dunque
che
San
Zaccaria
fosse
stata
una
specie
di
seconda
Cappella
Ducale,
dopo
San
Marco.
Un
legame
dunque
con
il
Palazzo
Ducale che si celebrerà nel corso dei secoli, per tutta la vita della Repubblica, con l'annuale visita del Doge.
Il
monastero
benedettino
di
San
Zaccaria
divenne
ben
presto
il
più
famoso
fra
i
conventi
femminili
della
città
e
del
dogado.
Numerosi
furono
i
beni
di
cui
per
dote,
per
eredità
o
donazione,
il
monastero
venne
in
possesso:
case
in
città,
corti
in
campagna,
vigne
e
orti
nell'estuario,
saline,
valli
da
pesca,
ecc.
Nel
914
Ingelfredo,
conte
di
Verona,
donava
la
corte
di
Petriolo,
nei
pressi
di
Monselice;
nel
1005
Rambaldo,
conte
di
Treviso,
lasciava
dei
beni
a
Brendole
e
a
Zelarino.
Da
un
inventario
del
1305
risultava
che
il
monastero
possedeva
153
case
a
Venezia,
campi
affittati
a
Ronco
e
a
Monselice,
campagne
nel
trevigiano,
vigne
e
orti
in
laguna,
saline
a
Chioggia,
ecc.
Elenco
che
crescerà
ancora nel corso dei secoli.
Con
queste
premesse
è
chiaro
come
il
monastero
attraesse
le
figlie
delle
più
importanti
case
patrizie,
anche
se
spesso,
com'era
nella
consuetudine
dell'epoca,
venivano
a
loro
date
cospicue
doti.
Tutti
questi
fatti
fecero
sì
che
una
vera
vita religiosa fosse ben lontana dalle sue mura, anche se non mancarono esperienze di autentica religiosità.
In
occasione
della
visita
apostolica
del
1581,
il
Senato
decise
che
ne
sarebbero
stati
esclusi
tutti
i
conventi
femminili
della
città:
si
temeva,
infatti,
che
se
la
verità
fosse
venuta
alla
luce,
con
le
conseguenti
ed
inevitabili
riforme,
ben
poche sarebbero state le ragazze disposte volontariamente a prendere il velo.
Un
altro
sintomatico
episodio
era
accaduto
nel
1514,
durante
il
patriarcato
di
Antonio
Contarini,
che
nella
sua
azione
riformatrice,
supportato
anche
dal
Consiglio
dei
Dieci,
aveva
inviato
un
suo
vicario
con
lo
scopo
tra
l'altro
di
far
chiudere
il
famoso
e
famigerato
parlatorio,
ma
il
malcapitato
era
dovuto
fuggire,
preso
a
sassate
dalle
stesse
monache,
che
ricorsero
poi
presso
i
loro
potenti
parenti
e
amici;
della
cosa
si
interessò
perfino
il
Sommo
Pontefice,
e si decise di lasciare le cose come stavano.
Il
monastero,
rifugio
principale
delle
patrizie
veneziane
escluse
dal
patrimonio
ereditario,
divenne
ben
presto
il
più
famoso
tra
i
conventi
della
città
lagunare
e
del
dogato
per
ricchezza
di
beni
e
possedimenti,
nonché
per
la
fastosità
dei
ricevimenti
che
avevano
luogo
nel
parlatorio
delle
monache
e
per
gli
intrighi
che
le
medesime
intessevano
in
città
e
nello
stesso
dogato.
Alcuni
importantissimi
pittori,
come
il
Francesco
Guardi,
il
Pietro
Longhi
ed
ultimo
il
Giuseppe
Gobbi
hanno
saputo
illustrare
come
venivano
vedute
all’epoca
le
feste
e
gli
avvenimenti
sociali
presso
il
parlatorio delle monache del convento di San Zaccaria.
Per
tutta
la
lunga
vita
di
questo
monastero,
vi
gravò
quasi
come
un
peso
il
peccato
d'origine,
cioè
lo
stretto
legame
tra
la
comunità
monastica
e
il
patriziato,
con
vincoli
di
sangue,
affetti
forzatamente
spezzati
o
disperatamente inseguiti.
Ben
otto
dei
primi
dogi
vennero
qui
sepolti:
alcuni
costretti
a
farsi
monaci,
come
Pietro
Tribuno
(911)
e
Domenico
Morosini
(1156);
altri
uccisi
nelle
immediate
adiacenze,
come
Pietro
Tradonico
(864)
e
Vitale
Michiel
(1172),
in
modo
tale
che
la
chiesa
divenne
in
quei
primi
tempi
il
pantheon
della
città.
Una
tradizione
vorrebbe
che
qui
avesse
trovato
ospitalità
anche
papa
Benedetto
III,
rifugiatosi
a
Venezia
per
sfuggire
alla
violenza
dell'antipapa
Anastasio.
In
questa
circostanza avrebbe donato alla chiesa le reliquie di San Pancrazio e di Santa Sabina.
Si
vuole
anche
che
l'imperatore
Ottone
III,
venuto
a
Venezia
per
incontrarsi
con
il
doge
Pietro
Orseolo
II,
nell'anno
1000,
abbia
qui
passato
la
notte,
come
rappresentato
in
un
dipinto
all'interno
della
chiesa.
Era
la
notte
di
Pasqua,
e
molto
probabilmente
ebbe
da
qui
origine
la
tradizionale
visita
del
doge
alla
chiesa
e
al
convento,
che
avveniva
il
lunedì di Pasqua..
Nel
1106
il
convento
fu
gravemente
danneggiato
da
un
incendio.
Nella
prima
metà
del
'400
fu
riedificato
e
in
seguito
ampliato
con
due
chiostri
ad
opera
dell'architetto
Antonio
Gambello.
Il
chiostro,
con
logge
e
portici
a
pavimentazione
a
spina
di
pesce
e
in
argilla
cotta,
era
fornito
di
una
pregiata
vera
da
pozzo,
in
marmo
rosso
di
Verona, asportata e sistemata in un palazzo viennese durante il governo Asburgico.
Nel
1483,
alla
morte
dell’arch.
GAMBELLO,
il
completamento
del
complesso
fu
affidato
all’arch.
Mauro
CODUSSI,
il
quale
progettò
un
secondo
chiostro
a
logge
e
portici
con
vera
da
pozzo
centrale
e
serbatoio
per
l’acqua
potabile
interrato e in seguito costruito in pietra d’Istria e trachite euganea.
L'accesso
al
complesso
monastico
avveniva
attraverso
un
sottoportico
dalla
Riva
degli
Schiavoni,
mentre
da
campo
San
Provolo
l'accesso
era
attraverso
un
portale
gotico
fiorito
della
scuola
dei
Bon,
ove,
in
un
bellissimo
bassorilievo,
è
rappresentata
La
Madonna
con
il
Bambino
fra
San
Giovanni
Battista,
San
Marco
e
San Zaccaria.
Entrambi
gli
accessi
erano
chiusi
da
portoni
durante
la
notte,
mentre
durante
il
giorno
erano
aperti
dall'alba
al
tramonto
consentendo
così
il
transito.
Due
iscrizioni
lapidee
del
Magistrato
contro
la
biastema
proibiva,
sotto
gravissime
pene,
qualsiasi atteggiamento immorale o ludico nel campo.
Famoso
per
tradizione,
ebbe
sempre
la
benevola
protezione
della
Signoria
Dogale
che,
annualmente,
nel
giorno
di
Pasqua,
vi
si
recava
a
udir
vespro
in
gesto
di
gratitudine
per
la
concessione
fatta
dalle
monache
al
doge
Sebastiano
Ziani,
sulla
fine
del
1100,
di
una
parte
del
“brolo
”
(parte
di
terreno)
per
l’ampliamento
della
Piazza
San
Marco.
Per
quell’occasione
il
doge
portava
in
capo
il
“corno
ducale”
con
cui
era
stato
incoronato,
a
ricordo
della
donazione fatta, per la prima volta, alla Repubblica di tale copricapo ducale da parte di una badessa di San Zaccaria.
Il
1806,
successivamente
all’occupazione
napoleonica
(1796),
segnò
la
soppressione
del
monastero.
L’edificio
rimase
abbandonato
fino
al
rientro
in
città
degli
austriaci
nel
1815,
i
quali
vi
ospitarono
gli
uffici
della
ragioneria
centrale.
Seguirono,
così,
notevoli
lavori
di
ristrutturazione
per
adattare
il
convento
alle
nuove
destinazioni
d’uso.
Infatti,
i
corpi
di
fabbrica
edificati
alla
destra
della
chiesa,
gli
uffici
del
comando
Provinciale,
Comando
Compagnia,
Stazione San Marco e gli alloggi, furono costruiti tra il 1820 e il 1860.
Nel
1866,
con
l’annessione
del
Veneto
al
Regno
d’Italia,
l’ex
convento
fu
adibito
a
Presidio
Militare
del
Regio
Esercito
con contestuale insediamento di un manipolo di carabinieri reali, con compiti di Polizia Militare.
Dal
1890
al
1918
il
luogo
ospitò
anche
un
comando
di
fanteria
che
fornì
truppe
per
la
guerra
di
Eritrea
(1895-1898),
per
la
guerra
Italo
–
Turca
(1911-
1912)
e
per
la
Ia
guerra
mondiale.
Nel
1914,
con
Regio
Decreto,
la
caserma
fu
dedicata
alla
Medaglia
d'Oro
al
Valor
Militare
al
Colonnello
dell'Esercito
Nicolò
Madalena,
nato
a
Venezia
nel
1863
e
caduto
eroicamente in combattimento in Libia (Cirenaica) nel 1913.(In allegato notizie sull’ufficiale).
Sul
finire
della
prima
Guerra
mondiale,
l'edificio
venne
assegnato
all'Arma
dei
Carabinieri
Reali
divenendone
proprietà del Demanio civile dello Stato.
Per
quanto
riguarda
la
caserma,
ha
un
perimetro
ad
“
L
”
che
sviluppa
una
superficie
di
3.500
mq;
è
delimitato
a
ovest,
dall’abside
della
chiesa
di
San
Zaccaria
e
dal
campo
omonimo,
a
nord,
dalla
fiancata
destra
della
stessa
chiesa
e
dalla
scuola
elementare
“
Barbarigo
”,
a
est,
da
un
canale,
rio
dei
greci,
inserito
nel
bacino
di
San
Marco,
a
sud
da
una porzione dell’Hotel Wildner e dall’Hotel Londra.
Gli
edifici
non
ospitano
opere
d’arte
di
rilievo
ad
eccezione
di
elementi
dello
stesso
ordine
architettonico
della
chiesa,
quali
archi
a
tutto
sesto,
capitelli,
colonne
e
chiavi
di
volta
di
origine
codussiana,
il
portale
d’ingresso
e
la
scala,
da
cui
si
accedeva
nelle
stanze
della
madre
badessa
e
alcuni
quadri
e
mobili
sei-settecenteschi
negli
uffici
del
Comando Provinciale.
Festa o visita del Doge a San Zaccaria
Al
tempo
che
Agostina
Morosini
era
Badessa
in
San
Zaccaria,
cioè
a
dire,
l’anno
855,
il
Pontefice
Benedetto
III
fu
in
Venezia,
e
visitò
quella
chiesa
e
quel
monastero.
Penetrato
vivamente
d’ammirazione
per
la
virtù
e
santità
che
vide
regnare
fra
quelle
sacre
vergini,
volle,
tornato
a
Roma,
dare
una
testimonianza
della
sua
soddisfazione
con
l’arricchirle di un gran numero di reliquie e d’indulgenze.
In
quell’occasione
La
badessa
avrebbe
ricevuto
in
dono
il
copricapo
ducale
dallo
stesso
papa
Benedetto
III.
Con
questa
origine
pontificia
l'incoronazione
del
doge
diventava
simile
a
quella
dell'imperatore,
anche
per
questo
il
doge
lo
poteva
porre
sul capo solo il giorno della sua elezione.
Fu
allora
che
il
Doge
Pietro
Tradonico
(la
cui
famiglia
fu
poi
detta
Gradenigo)
cominciò
a
visitare
il
tempio
di
San
Zaccaria
fra
il
concorso
del
popolo.
Sarebbe
stato
un
vero
scandalo
a
quei
tempi,
in
cui
tutto
respirava
la
più
pura,
e
la
più
solida
pietà,
se
il
capo
della Repubblica
avesse
mancato
di
assistere
a
solennità
religiosa.
Si
fissò
dunque
il
giorno
di
Pasqua
come
il
più
adattato
all’annuale
visita.
La
Badessa
Morosini
lietissima
di
vedere
il
Doge
processionalmente
venire
alla
sua
chiesa
gli
offerse,
d’accordo
colle
sue
religiose,
un
regalo
degno
di
lui,
e
della
ricca
eredità
di
cui
ella
godeva.
Fu
questo
una
specie
di
diadema
repubblicano,
che
si
chiamava
Corno
Ducale
di
un
valore
straordinario.
Esso
era
tutto
d’oro:
aveva
il
contorno
ornato
di
ventiquattro
perle
orientali
in
forma
di
pere.
Sulla
sommità
risplendeva
un
diamante
ad
otto
facce,
di
un
peso,
e
di
una
lucidezza
mirabile.
Nel
dinanzi
un
rubino
anch’esso
di
massima
grossezza,
che
abbagliava
colla
vivacità
del
suo
colore
e
del
suo
fuoco.
Come
poi
descrivere
la
gran
croce
che
stava
nel
mezzo
del
diadema?
Era
questa
composta
di
pietre
preziose,
e
particolarmente
di
ventitré
smeraldi,
dei
quali
cinque,
che
formano
il
traverso,
vincevano
in
bellezza
quanto si può vedere in tal genere.
Regalo
così
inestimabile
venne
dal
Doge
sommamente
gradito,
e
da
quel
momento
si
stabilì,
che
il
superbo
diadema
non
avesse
a
servire
se
non
per
il
giorno
della
coronazione
dei
nuovi
Dogi.
Ma
perché
quelle
buone
religiose
non
stessero
del
tutto
prive
del
piacere
di
rivederlo
(piacere
che
richiamava
alla
memoria
un’azione
nobilissima
di
quella
comunità),
si
decretò
inoltre,
che
tutti
gli
anni
nel
giorno
della
visita
da
farsi
a
San
Zaccaria,
esso
verrebbe
tratto
dal
pubblico
tesoro,
e
sopra
un
bacino
presentato
dal
Doge
medesimo,
e
mostrato
a
tutte le suore; il che fu sempre esattamente eseguito.
Un
triste
avvenimento
accaduto
l’anno
864
contribuì
a
dare
a
questa
Festa
un
lustro
maggiore.
Da
lungo
tempo
vi
avevano
in
Venezia
forti
dissensioni
fra
alcune
nobili
famiglie,
e
sotto
il
Ducato
di
Tradonico
più
che
mai
infierivano.
Tutta
la
città
pareva
divenuta
un
campo
di
battaglia;
non
essendovi
giorno,
in
cui
le
due
fazioni
non
si
scontrassero,
e
non
venissero
fra
di
loro
alle
mani.
Si
azzuffavano
a
torme,
né
mai
si
distaccavano
senza
prima
avere
sparso molto sangue.
Il
Doge
tutto
tentò
per
conciliare
gli
accaniti
cittadini;
ma
gli
venne
ciò
che
d’ordinario
incontra
chiunque
nel
calore
delle
altrui
dispute
spiega
uno
spirito
conciliatore.
Volendo
destreggiare,
si
rese
sospetto
di
parzialità
ad
entrambe
le
parti.
Di
fatti
è
impossibile
l’amare
ad
un’ora
due
fazioni
diverse,
e
il
farsi
da
esse
riamare;
conviene
di
necessità
che
una
di
esse
rimanga
scontenta,
e
non
è
raro,
che
questa
mediti
la
perdita
non
men
della
sua
rivale,
che
quella
del
mediatore
stesso.
Il
Doge
mandava
ordini,
e
non
era
obbedito:
minacciava,
e
le
sue
minacce
si
sprezzavano
non regnava più disciplina alcuna, né sicurezza nella città.
Egli
avrebbe
voluto
punire
taluno
fra
i
più
ostinati
d’
entrambi
i
partiti,
ma
nelle
discordie
civili
le
punizioni
hanno
talvolta
conseguenze
ancor
più
funeste
perché
di
vantaggio
inaspriscono
gli
animi.
Il
disordine
andava
più
ognora
crescendo:
si
mormorava
contro
il
Doge;
si
gridava
contro
dell’ingiustizia,
della
tirannia;
dalle
mormorazioni
si
venne
alle
invettive,
e
l’eccesso
del
fermento
ebbe
per
sviluppo
la
morte
sciagurata
del
Doge.
Venne
egli
assalito
nel
momento
che
usciva
con
tutto
il
suo
corteggio
dalla
chiesa
di
San
Zaccaria.
Le
guardie
cercarono
in
vano
di
difenderlo; egli spirò sotto reiterati colpi di pugnale.
Succeduto
appena
il
fatto,
i
cittadini
tennero
una
generale
Assemblea
in
cui
dopo
aver
deplorato
LA
tragicA
fine
del
Doge,
come
un
attentato
orrendo,
si
crearono
tre
Commissari
che
prendessero
in
rigoroso
esame
l’affare.
Conveniva
assolutamente
punire
i
rei
per
impedire
ulteriori
sfrenatezze
nel
popolo,
ma
si
doveva
anche
fare
sì,
che
in
avvenire
non
potesse
alcun
Doge
abusare
della
sua
autorità,
né
parzialeggiare
con
alcuna
fazione:
altrimenti
non
vi
sarebbe
differenza
veruna
fra
il
capo
di
una
Repubblica
libera
ed
un
monarca,
il
quale
si
crede
tutto
permesso,
perché
niuno
osa
contrariare
i
suoi
voleri,
né
prescriver
limiti
alla
sua
autorità.
Questi
Triumviri
si
trassero
fuori
con vero zelo da una commissione sì gelosa.
Si
riconobbe
l’utilità
di
tale
magistratura,
e
quindi
piacque
che
fosse
perpetua.
Ad
essa
si
affidò
la
custodia
delle
leggi,
ed
i
suoi
membri
si
chiamarono
Avvogadari
di
Comune.
Furono
essi
sempre
mai
in
grandissima
riputazione,
poiché erano i principali sostegni della pubblica sicurezza.
Si
volle
poscia
dare
alla
Festa,
o
per
meglio
dire,
alla
visita
di
San
Zaccaria,
un
aspetto
più
decoroso,
e
per
ciò
si
risolse,
che
il
Doge
colla
Signoria
invece
di
andare
a
piedi
si
dovesse
recare
al
monastero
nelle
sue
barche
dorate,
e
che
le
grandi
confraternite
si
trovassero
a
quel
momento
nella
chiesa.
La
folla
del
popolo
si
accrebbe
allora,
e
continuò
poscia
sino
all’anno
1796,
sì
per
acquistare
le
assegnate
indulgenze,
e
sì
per
voglia
di
ammirare
quel
diadema,
che
col
suo
splendore
abbagliava
gli
occhi
di
tutti.
Il
popolo
non
sa
dimenticarlo,
e
lo
piange
tuttavia,
come piange il pubblico un tesoro sì rinomato, e tante altre ricchezze nazionali miseramente disperse.
Associazione Nazionale Carabinieri - Sezione di Venezia
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